Covid 19, il virus del capitalismo e l’esplosione storica della disoccupazione
di Eduardo Camìn (*); da: surysur.net.3.10.2020
La pandemia ha provocato, nel 2° trimestre 2020, una perdita di ore di lavoro equivalente a 495 milioni di posti di lavoro e, nello stesso tempo, tra gennaio e settembre, le entrate dei lavoratori sono cadute di 3,5 bilioni di dollari: sono le conclusioni del nuovo studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).
I 495 milioni calcolati ora, che significano una perdita del 17,3 per cento delle ore di lavoro, potrebbero diminuire nel terzo e quarto trimestre, ma la OIL prevede ancora cadute equivalenti a 345 e 245 milioni di posti di lavoro, rispettivamente.
Il nuovo rapporto sugli effetti della pandemia sul mercato del lavoro globale, il sesto elaborato dall’organizzazione con sede a Ginevra, peggiora le cifre del precedente studio di giugno, in cui la perdita di impieghi era stata calcolata in 400 milioni, sempre paragonati alle cifre dell’anno precedente.
Questo grido, in un immenso mare di silenzio, non cade dal cielo né sale dall’inferno delle profondità più oscure della terra, ma si sveglia ogni giorno nell’immensità delle popolazioni che naufragano nelle promesse delle tristi capitali. I titoli della stampa ci parlano oggi del trauma, del dolore e del disastro dovuti dall’esplosione della disoccupazione.
Latinoamerica, la regione più colpita
Tutte queste perdite di ore di lavoro si sono tradotte nella menzionata discesa globale delle entrate da lavoro di 3,5 bilioni di dollari (un 10,7% interannuale).
L’America, sottolinea l’OIL, è il continente più colpito da questa perdita di entrate, con una caduta del 12,1% rispetto allo stesso periodo del 2019, ed i paesi poveri sono risultati più colpiti rispetto a quelli ricchi, con un abbassamento del 15,1%.
L’abbassamento delle ore di lavoro e delle entrate è dovuto principalmente alle misure di prevenzione contro il Covid-19, che hanno portato alla chiusura di molte attività lavorative durante i confinamenti di massa che, secondo l’OIL, continuano ancora nella maggior parte del pianeta.
Nonostante queste misure restrittive vengano oggi attuate in forma meno rigida, l’organizzazione sottolinea che il 94% dei lavoratori risiede in paesi in cui ancora viene applicato un tipo di limitazione che tocca i luoghi di lavoro. Uno su ogni tre lavoratori risiede in nazioni dove sono chiusi tutti i luoghi di lavoro, salvo quelli essenziali, ricorda lo studio OIL.
Il principale motivo dei calcoli più pessimistici, secondo l’OIL, è proprio la situazione delle economie in via di sviluppo ed emergenti, in particolare del settore informale (dicesi ”informale” quella parte dell’occupazione che non è regolata da norme legali o contrattuali, n.d.t), che è stato molto più colpito dalla pandemia di altre attività economiche.
Per regioni, l’America Latina è la più colpita in termini relativi, con una perdita di ore di lavoro nel secondo trimestre del 33,5 per cento (equivalenti a 80 milioni di posti di lavoro), perdita che continuerà ad essere alta nel terzo trimestre, raggiungendo probabilmente il 25,6 per cento (60 milioni di posti di lavoro), secondo l’OIL.
In termini assoluti la maggiore perdita di ore di lavoro è avvenuta nel sud dell’Asia, dove ha equivalso alla perdita di 170 milioni di posti di lavoro nel secondo trimestre e arriverà nel terzo a 115 milioni, secondo le previsioni OIL.
Anche se l’OIL non ha fornito informazioni dettagliate di ogni paese, nel rapporto si sottolinea che la perdita di ore di lavoro in Spagna si aggira sul 6%, in paesi come gli Stati Uniti o il Brasile è arrivata al 10% e in molte nazioni latinoamericane (Messico, Cile, Ecuador, Colombia Costa Rica) è nella fascia del 20%.
Più drammatico è il caso del Perù, uno dei paesi con più casi di Civid-19 del pianeta e con un alto predominio del lavoro informale, dove si calcola che la perdita di ore lavorative abbia superato il 50% tra aprile e giugno.
Misure fiscali shock
Il rapporto OIL analizza anche le misure di incentivi fiscali prese da vari governi per mitigare gli effetti nocivi della pandemia sul mercato del lavoro, e conclude che per ogni 1 per cento del PIL utilizzato in queste politiche si possa ottenere una discesa dello 0,8% nella perdita di posti di lavoro.
Ma queste misure, lamenta l’OIL, si sono concentrate in particolare nei paesi sviluppati a causa della scarsità di risorse dei paesi poveri, nonostante questi siano stati più colpiti a causa del predominio del lavoro informale e a quanto questa forma di lavoro sia stata colpita dalla crisi sanitaria.
I paesi poveri dovrebbero investire 982.000 milioni di dollari in più in totale per ottenere gli stessi effetti palliativi delle misure adottate nelle nazioni più ricche, conclude l’OIL. “Mentre raddoppiamo gli sforzi per vincere il virus, dobbiamo adottare misure su scala il prima possibile per affievolire i suoi effetti sul piano economico, sociale e lavorativo. In particolare si deve sviluppare il lavoro e l’attività imprenditoriale, oltre a garantire le entrate” ha detto Guy Ryder, direttore generale dell’OIL, in occasione della presentazione del rapporto.
L’ostinata realtà
La crisi economica che si trascina da più di un decennio e che oggi si è approfondita a causa dell’impatto della pandemia di coronavirus Covid-19 ha portato ad un aumento importante della disoccupazione e, di conseguenza, alla crescita della povertà, che ha colpito severamente i più vulnerabili.
Le cifre, gli studi, le analisi emanate dai organismi multilaterali del capitalismo sono catastrofici e, tuttavia, sappiamo che la realtà concreta dei lavoratori è ancor più devastante di quanto presuppongono i rapporti ed i numeri ufficiali dei suddetti organismi che, d’altra parte, insistono nel presentare la crisi come un prodotto della pandemia.
Particolarmente le famiglie che già vivevano in condizioni di esclusione, marginalità e sovraffollamento e che svolgevano lavori informali, i lavoratori domestici, i giovani e, ancor più tristemente, l’estensione evidente del lavoro infantile, tutte queste categorie faranno parte della popolazione più colpita dall’attuale crisi del sistema capitalistico.
Lo scenario economico
Insieme allo scenario economico, la pandemia ha caratteristiche che la trasformano in una crisi sanitaria su scala globale, senza precedenti nella storia dell’ultimo secolo, peggiore della grande Depressione del 1929 e della 2° guerra mondiale.
Lo scoppio dell’epidemia ha approfondito ancor di più la crisi capitalista, il che ha portato ad una recessione economica, la più grave registrata in quasi 100 anni e sta causando enormi danni alla salute, al lavoro e sta approfondendo la precarizzazione dei più vulnerabili.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) e la Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL) dichiaravano tempo fa che il PIL di questa regione quest’anno avrà una decrescita del 5,3% e che si produrrà un aumento della disoccupazione con 11,5 milioni di nuovi disoccupati, il che porterà ad aumentare la povertà in 28,7 milioni di persone, e la povertà estrema in 15,9 milioni, scenario per nulla confortante per la regione.
I dati mostrano che saranno i giovani tra i 15 e i 24 anni la fascia di età più colpiti dalla disoccupazione e dalla precarizzazione del lavoro.
Già si comincia a parlare di “generazione del confinamento” principalmente perché sono essi che hanno visto interrompersi i processi di educazione, formazione e abilitazione, la perdita del lavoro, la riduzione del tempo di lavoro e della remunerazione e hanno maggiori difficoltà a trovare un nuovo impiego. Questo settore ha avuto, del resto, alti tassi di disoccupazione storicamente e strutturalmente ben prima della pandemia.
Nel mondo sono circa 178 milioni i giovani lavoratori formali (cioè con regolari contratti, n.d.t.) dei quali 4 su 10 lavorano nei settori più colpiti al sorgere della crisi sanitaria e cioè il commercio, la manifattura, il settore immobiliare, quello alberghiero e l’industria alimentare.
Ma non è questo il peggio: circa 382 milioni di giovani hanno invece un lavoro informale. Un’altra espressione del lavoro informale è il lavoro ‘autonomo’ dove i giovani sono il 39,8% (questa categoria, anche se non considerata scientificamente nel materialismo dialettico, in realtà ci parla di un settore altamente precarizzato).
Dall’altra parte 68 milioni di giovani sono senza lavoro. Oltretutto 267 milioni (compresi i 68) non studiano né lavorano, sono i cosiddetti ‘né-né’. A questo si aggiunge il fatto che i giovani sotto i 30 anni costituiscono circa il 70% del flusso della popolazione migrante, situazione che li espone a condizioni di mancanza di protezione e precarietà ulteriore.
Chiaramente saranno i giovani a pagare i costi della crisi. Le cifre disegnano in modo dantesco l’abisso in cui saranno gettati milioni di loro e dal quale gli sarà molto difficile uscire.
Questi dati mostrano con chiarezza che la crisi del sistema capitalista, basato sullo sfruttamento e la dominazione, ha avuto impatti sulla società ben prima della scoppio del coronavirus.
La società da anni e anni viene colpita dalle misure dei governi che cercano di massimizzare i profitti della borghesia monopolista, l’estrazione di più e più plusvalore dal super-sfruttamento della forza lavoro.
La formula è semplice: perché la borghesia continui a concentrare più ricchezze e privilegi, i lavoratori devono essere sempre più precarizzati e super-sfruttati.
Il capitalismo, date le sue contraddizioni interne, affronta crisi periodiche che destabilizzano i suoi stessi equilibri e vengono risolte attraverso il sacrificio dei più poveri. Ma oggi assistiamo ad una crisi integrale del sistema capitalistico, cioè una crisi più profonda ed estesa di quelle precedenti.
Tutto il mondo lo sa, ma pochi ne parlano; il silenzio è incontenibile nel mezzo del rantolo della pandemia: il lavoro è impunemente ferito nella miserabile speculazione o sull’ascensore del casinò di Wall Street.
(*) Giornalista uruguayano, analista del Centro Latinoamericano di Analisi strategica (CLAE)
(traduzione di Daniela Trollio
Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)