anniversari

Cento anni senza John Reed

di Pascual Serrano (*); da: rebelion.org; 24.10.2020

 

Lo scorso 17 ottobre è stato il centenario della morte di John Reed, il giornalista delle rivoluzioni e delle sollevazioni.

I suoi primi lavori avvennero a New York, per American e in seguito per The Masses, un mensile alternativo di sinistra. In quell’epoca pubblica già reportage chiaramente impegnati, come la copertura dello sciopero dei lavoratori della seta a Paterson (New Jersey). Nel novembre 1913 va in Messico come corrispondente di guerra del Metropolitan Magazine, dove segue l’avanzata delle truppe rivoluzionarie di Panche Villa nel nord del paese. Da questa esperienza nascerà il libro “Messico insorto”. Divenuto già un giornalista di fama, ritorna negli Stati Uniti, dove continua a pubblicare reportage sulle lotte operaie dalla linea del fronte, come successe con la mattanza dei minatori del carbone in sciopero in Colorado.

 

Alla fine dell’estate 1914 diventerà corrispondente di guerra (la 1° guerra mondiale, n.d.t.) per il Metropolitan in Inghilterra, Francia, Svizzera, Italia, Germania e Belgio, tornandone colpito e ancor più radicale nel febbraio 1915. Un mese dopo tornerà nei Balcani, il fronte orientale della guerra, e da lì continua a scrivere per Metropolitan e The Masses. Con tutto il materiale prodotto scriverà poi il suo secondo libro “La guerra in Europa Orientale”. Ottiene dal New York Times di scrivere un articolo ogni giorno e rompe la sua relazione con il Metropolitan.

 

Attratto dalle appassionanti notizie che arrivano dalla Russia rivoluzionaria, vi si reca nel settembre 1917 e vi rimarrà fino al febbraio dell’anno seguente. Così vivrà gli spettacolari successi della Rivoluzione d’Ottobre. E con tutto il materiale raccolto pubblica “Dieci giorni che sconvolsero il mondo”, considerato uno dei migliori reportage giornalistici del XX secolo.

 

Tornato negli Stati Uniti, il suo spirito bolscevico continua a bollire. Comincia a farsi coinvolgere nel Partito Socialista, da cui verrà espulso insieme ad altri radicali con i quali fonderà il Partito Comunista Radicale. La sua situazione legale negli Stati Uniti si complica e decide di tornare in Russia per iscrivere il suo partito all’Internazionale Socialista. Mentre torna nel suo paese viene intercettato e arrestato in Finlandia. Quei mesi di prigionia colpiranno gravemente la sua salute. Liberato in giugno, torna prima a Pietrogrado e poi a Mosca. Rimarrà là fino a settembre, quando contrarrà il tifo e vi morirà il 17 ottobre 1920 a 32 anni.

E’ sepolto ai piedi della Muraglia Rossa del Cremlino, nel luogo riservato agli eroi della Rivoluzione d’Ottobre.

 

Si dice solitamente che il giornalismo stampato finisce per avvolgere il pesce il giorno dopo la sua diffusione. Ora, con il ritmo trepidante di internet e delle reti, il giornalismo scritto non dura neppure tanto così.

Tuttavia esiste un giornalismo che dura per decenni, è il giornalismo che spiega il mondo.

No, non si tratta di trattati di storia né di analisi complesse di geopolitica; è puro giornalismo che racconta quello che succede, lo interpreta e ci aiuta a capire i fatti. Bene, questo è il giornalismo di John Reed.

 

John Reed è anche il paradigma del giornalista impegnato. Pepe Rodrìguez, editore del libro dedicato a Reed “Rossi e Rosse”, afferma che “nella sua opera non nasconde, anzi , la sua presa di posizione. Questo gesto è stato capito anche dai suoi critici e dai suoi avversari, perché essi compresero che in un’opera storica come in un’opera d’arte – e i “Dieci giorni” è entrambe le cose – la sincerità è più importante della falsa obiettività”.

 

E’ emozionante, già nei suoi primi lavori, leggere come iniziava la cronaca dello sciopero dei lavoratori della seta: “C’è una guerra a Peterson, New Jersey. Ma è un curioso tipo di guerra. Tutta la violenza è opera di una parte sola: i padroni delle fabbriche. La loro servitù, la polizia, colpisce uomini e donne che non offrono resistenza e investe moltitudini rispettose della legge. I loro mercenari, i detectives armati, sparano e uccidono persone innocenti”.

 

John Reed dimostrò che il suo impegno politico non metteva in discussione la sua deontologia professionale. Egli stesso, nella prefazione di “Dieci giorni che sconvolsero il mondo”, chiarisce i suoi principi: nessuna neutralità e attaccamento alla verità.

Nella lotta le mie simpatie non sono state neutrali. Ma nel raccontare la storia di quei grandi giorni, mi sono sforzato di osservare i fatti con l’occhio dell’analista coscienzioso, interessato a raccontare la verità”.

 

Ciò di cui l’opera di John Reed è indiscutibile è che la sua posizione politica non fu mai un impedimento alla sua professionalità di giornalista, al suo attaccamento alla verità,alla sua esattezza. Cosa che contrasta molto con la realtà di parecchi giornalisti attuali.

Reed, che non nascose mai le sue posizioni ideologiche e politiche, che fondò e militò in partiti politici, fece sempre un giornalismo rigoroso, dai luoghi dove avvenivano i fatti e con la verità come bandiera.

Oggi, molti dei giornalisti che si dicono apolitici e neutrali, curiosamente, stanno in realtà militando più di John Reed e abbandonando ogni deontologia e ogni etica nella professione.

 

(*) Giornalista e saggista spagnolo

 

(traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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