La Wiphala sventola di nuovo
di Daniela Trollio (*)
“Tornerò e sarò milioni”, disse Tùpac Katari il giorno della sua esecuzione per squartamento da parte degli spagnoli, il 15 novembre 1781 a La Paz. Era il leader aymara di una delle più significative ribellioni indigene contro le autorità coloniali dell’Alto Perù, l’attuale Bolivia: il suo esercito di 40.000 uomini aveva messo sotto assedio la città per ben due volte, prima che la rivolta fosse stroncata dopo più di 100 giorni.
E milioni sono stati i boliviani che – nonostante un colpo di Stato e infinite violenze e minacce poliziesche – hanno riportato il Movimento al Socialismo (MAS9 AL potere e il suo leader Evo Morales, caricato in fretta su un aereo messicano a Chimoré e spedito in esilio dai golpisti, nuovamente in Bolivia. E proprio a Chimoré più di 100.000 persone hanno accolto il suo ritorno.
Come scrive la giornalista Vicky Pelàez, “i colpi di Stato non sono niente di nuovo in America Latina e rappresentano una realtà latente nel corso della storia repubblicana del continente. In Brasile il golpe militare durò 21 anni, in Cile 17, in Uruguay 12, in Argentina 7 e nella Bolivia di Hugo Banzer altri 7”.
L’ultimo golpe nella Bolivia di Evo Morales che ha portato al potere il governo de facto di Jeanine Anez, nonostante tre tentativi di ritardare le elezioni (e meno male che doveva “riscattare la democrazia dalla dittatura del MAS”), è durato solo (!!) 11 mesi. Il MAS ha vinto dappertutto, compreso a Santa Cruz de la Sierra, nel bastione storico della destra fascista e bianca (che nelle elezioni ha preso circa il 10% dei voti).
Ma andiamo per gradi, per capire come mai, dopo 14 anni di governo del MAS, il novembre 2019 c’è stato questo colpo di Stato lampo.
La parola magica
Se nel 1973, nel Cile di Salvador Allende, la parola magica fu “rame”, nella Bolivia del 2020 è “litio”.
Il paese possiede una delle più grandi riserve al mondo di questo metallo, circa 21 milioni di tonnellate, e all’inizio del 2019 Morales aveva reso noto che era stato firmato un contratto tra Bolivia e Cina per l’estrazione del litio e la produzione “nazionale” di batterie e altri prodotti, con la costituzione di una società in cui la Bolivia aveva il 51% delle azioni e la Cina il 49%. Solo alle aziende statali o a maggioranza statale era concessa l’estrazione del prezioso metallo, in modo che lo Stato Plurinazionale mantenesse il controllo su una delle risorse più importanti del paese.
Il congressista repubblicano statunitense, Richard Blake, disse molto tranquillamente nel giugno 2020 che “c’è stata la preoccupazione che i cinesi potessero cominciare ad avere influenza all’interno della Bolivia e che in qualche modo sarebbe stato più difficile per noi ottenere il litio”. Ed Elon Musk (il 5° uomo più ricco del mondo) fu ancora più schietto, commentando il golpe: “Faremo un colpo di Stato contro chi vogliamo, e questo è un fatto”.
Prima del contratto con la Cina il governo boliviano ne aveva firmato un altro con la società tedesca ACI System per la costruzione di una fabbrica di materiali catodici e batterie destinate al mercato europeo, tagliando così fuori gli USA. E Morales sorprese il mondo presentando la prima auto elettrica prodotta in Bolivia.
Questa è la trama economica su cui si è tessuto il golpe.
Restavano poi da smantellare le conquiste sociali, distruggere tutte quelle misure, economiche e non, che hanno migliorato le condizioni di lavoro e di vita dei boliviani, in particolare del proletariato costituito in grandissima parte da indigeni (il 49,95% della popolazione e nelle zone rurali il 73,20%), quechua, aymara, meticci ed europei (il 15%) che formano lo Stato Plurinazionale di Bolivia.
Il “governo” golpista
Come in ogni golpe che si rispetti, i primi atti del governo “provvisorio” sono repressione, arresti, assalti alle case dei dirigenti del MAS. Tutto ciò che sapeva anche lontanamente di “socialismo” e di democrazia partecipativa viene attaccato, così come le sedi sindacali e le organizzazioni popolari.
Presieduto da una auto-proclamata presidentessa (come è successo in Venezuela con il burattino Juan Guaidò, ormai consegnato – peccato per gli Stati europei che l’hanno riconosciuto – alla pattumiera della Storia), Jeanine Anez, il “governo” si attiva subito per cancellare e distruggere quanto conquistato dai boliviani in 14 anni di governo del MAS.
In 11 mesi di governo golpista questi sono i risultati: il PIL è caduto dell’11%, il debito estero ha raggiunto i 1.500 milioni e le riserve sono passate da 8.900 a 6.800 milioni di dollari. Circa l’82% della Popolazione Economicamente Attiva (PEA) fa un lavoro “informale” (cioè senza contratto né regole); la disoccupazione è passata dal 4% al 30%, generando due milioni di nuovi poveri; colpite al cuore – oltre al proletariato e ai settori popolari - sia la borghesia tradizionale che quella “nuova”, risultato del miglioramento delle condizioni di vita dei boliviani; saccheggiato l’oro della Banca Centrale, finito negli USA a pagare l’acquisto di armi da utilizzare contro il popolo.
Già, perché tra i primi atti del “governo” golpista c’è la firma del decreto 4078 che esenta l’esercito da qualsiasi responsabilità penale per l’uso della forza. E così a Sencata (El Alto), a Sacaba (Cochabamba) e a Yapacani (Santa Cruz) si sono consumate ben tre stragi, con 37 morti e centinaia di feriti tra i manifestanti che protestavano contro il golpe nel novembre 2019.
Quanto alle pretese di partecipazione alla vita sociale degli “indigeni”, valgano come dichiarazione di guerra del nuovo governo le immagini delle squadracce paramilitari che colpiscono la sindaca di Vinto de Cochabamba Patricia Arce, le rasano i capelli, le tingono di rosso il viso e la obbligano a camminare scalza per ore sputandole addosso.
La politica estera del governo golpista viene immediatamente chiarita: assalto all’ambasciata del Venezuela, espulsione dei medici cubani, mano tesa ai governi di destra (Bolsonaro, Moreno, Duque).
L’autodeterminazione e la dignità conquistati dal popolo boliviano si trasformano in dipendenza, svendita delle risorse del paese, violazione dei diritti umani.
Ultimo, ma non meno importante, la gestione della pandemia di covid-19 è stata disastrosa, il sistema sanitario del paese è al collasso, con un centinaio di medici infettati e scioperi negli ospedali per protestare contro l’assenza di risorse. In questa situazione lo stesso ministro della Salute è finito in carcere accusato di malversazione di soldi pubblici per aver acquistato 170 respiratori ad un costo quattro volte più alto.
I minatori e i contadini
La Bolivia ha una classe operaia organizzata e piena di storiche tradizioni di lotta sanguinosa, il cui fulcro – a partire dagli anni ’40 - sono i minatori. Lasciamo descrivere il loro ruolo a Orlando Gutièrrez, dirigente della Federazione Sindacale dei Lavoratori delle Miniere della Bolivia (FSTMB), che ha passato ben 15 anni nel sottosuolo, a estrarre stagno e zinco nelle miniere di Colquiri. Nel luglio scorso aveva così risposto ad un giornalista: “Se parliamo dei minatori, parliamo della storia della Bolivia. Se parliamo della creazione della gloriosa Federazione Sindacale dei Lavoratori delle Miniere della Bolivia, questa è la colonna vertebrale della COB (Centrale Operaia Boliviana). Noi ci consideriamo la punta di lancia della lotta. Per questo, ahimé, abbiamo moltissimi martiri e questo è ciò che ci hanno insegnato i nostri antenati, è la nostra eredità. Ci hanno lasciato questo principio unico della lotta per non essere più oppressi da governi neoliberisti e capitalisti”. Gli abbiamo dato la parola perché Orlando Gutièrrez, che si ipotizzava potesse assumere il Ministero del Lavoro nel nuovo governo di Luis Arce, non c’è più. E’ morto in ospedale alla fine di ottobre, dopo essere stato aggredito da una squadraccia fascista. E’ questo il livello della lotta di classe in Bolivia oggi, al di là del risultato delle urne, e Orlando è diventato uno in più dei martiri di cui parlava.
Ma anche i contadini non scherzano, quanto a tradizioni e durezza di lotta. Ricordiamo solo i circa 80 morti e i 500 feriti a La Paz nell’ottobre 2003, quando 20.000 manifestanti e l’esercito si scontrarono per tre giorni in quella che fu definita “la guerra del gas”, la svendita del gas boliviano alle multinazionali USA. Tre giorni di battaglia, e i soldati dei corpi speciali dell’esercito che si rifiutano, il 3° giorno, di uscire dalle caserme a sparare sui fratelli, poveri montanari come loro; due presidenti – Sanchez de Losada e Carlos Mesa -che fuggono negli USA. Il gas rimane al popolo boliviano.
E sono proprio gli operai e i contadini che votano in modo massiccio Luìs Arce e David Choquehuanca del MAS, dandogli un vantaggio tale che i golpisti non possono parlare, come di solito - vedi Paraguay, Honduras, Brasile ecc. – di frode elettorale.
E ora?
Ora si tratta di ricostruire quello che è stato distrutto, contando soprattutto sulle organizzazioni del potere popolare che non si sono fatte piegare e che hanno organizzato questa fase della lotta – le elezioni – con intelligenza e coraggio, nonostante le pesanti intimidazioni e minacce. Il nuovo governo boliviano ha già spazzato via i vertici militari e della polizia, complici attivi del golpe di Stato; resta da disarticolare la “piattaforma civica” che ha propiziato il colpo di Stato e i golpisti stessi. Il potere popolare e le sue organizzazioni vanno rafforzate perché, in ogni caso, l’unica opzione della destra e dei suoi ispiratori a Washington, resta sempre il golpe.
Intanto, da dove si trova, certamente il Che Guevara sorriderà per questa svolta nel paese dove egli ha dato la vita.
Canta Piero de Benedictis, attore e cantautore di protesta nato a Gallipoli ma in Argentina dall’infanzia:
Per il popolo / quello che è del popolo / perché il popolo se l’è guadagnato
Ma altre braci covano sotto la cenere.
In Cile, dove la lotta prima degli studenti e poi di larga parte della popolazione (che continua sporadicamente, nonostante il covid) ha infranto le vetrine e l’immagine del capitalismo vincente rivelando invece un abisso di povertà e miseria, il 25 ottobre di quest’anno finisce nella pattumiera la costituzione redatta da Augusto Pinochet nel 1980, rimasta finora in vigore .
In Perù, in poche settimane, sono “saltati” ben due presidenti – Martìn Vizcarra e Manuel Merino. La lotta popolare, che ha già visto 2 morti e il ferimento di un centinaio di persone, oltre a numerosi arresti, non esprime solo la rabbia per la corruzione endemica ma si allarga a rivendicare soluzioni per i milioni di disoccupati, per la salute, l’alimentazione, le case, l’educazione, tutti i diritti negati da decine di anni di governi neoliberisti.
Anche il Guatemala è in mobilitazione, nonostante il covid. Il 21 novembre scorso, dopo l’approvazione della nuova legge di bilancio che stanziava la cifra record di 13 milioni di dollari per la creazione di infrastrutture legate alle grandi imprese (poi ritirata in seguito alle manifestazioni di protesta), tagliando invece il budget per istruzione e salute, è stato incendiato il Parlamento (20 arresti e 50 feriti). Obiettivo della lotta popolare non è solo la corruzione ad altissimi livelli, ma il problema – anche qui – della fame, della disoccupazione, della sanità e dell’educazione allo sfascio, tutti problemi acutizzati non solo dal covid ma anche dal passaggio di due uragani.
Ricordate le dotte discussioni sulla “fine del ciclo” progressista in America Latina? A quanto pare non è finito proprio niente, men che meno la lotta e l’organizzazione del proletariato sfruttato e oppresso.
(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)
(dalla rivista Nuova Unità, n. 7, dicembre 2020)