Colombia

Anche la Colombia…

di Daniela Trollio (*)

 

C’è un fiume sotterraneo che scorre lungo tutta l’America Latina e ogni tanto affiora. E’ il fiume della rivolta proletaria e popolare.

 

La penultima volta è stato in Cile, il paese che passava per essere la “vetrina” dei successi del neoliberismo: nell’ottobre 2019 scoppia la rivolta, apparentemente per l’aumento del 4% delle tariffe della metropolitana. 

In realtà per la prima volta, in modo massiccio, vengono messi in discussione 30 anni di neoliberismo che hanno ridotto il proletariato e le classi medie sul lastrico, indebitate fino agli occhi perché tutto – servizi, sanità, scuole, pensioni – è ormai privatizzato (il paese fu il ”laboratorio” dei Chicago Boys, dove si sperimentò per la prima volta il neoliberismo).

Alla metà del mese di maggio 2021– dopo più di 15 mesi di rivolta in cui il regime ha tentato di tutto per fermare le proteste, compreso l’accecamento organizzato dei “cabros” (ragazzini, n.d.t.) - si è votato per eleggere i 155 membri dell’Assemblea Costituente, organo che dovrà – dopo il referendum del 1988 e la fine formale della dittatura nel 1990 che non avevano cambiato nulla - riscrivere la costituzione del Cile, cancellando finalmente quella redatta durante il regime di Pinochet e rimasta in vigore fino a quest’anno. Sono stati eletti anche più di 340 sindaci e governatori  e Santiago del Cile avrà il primo sindaco oltre che donna anche membro del Partito Comunista, Hiracì Hassler.

 

Il fiume è poi riaffiorato, dall’altro estremo del continente, il 28 aprile, primo giorno del Paro (sciopero) Nacional, in Colombia, il narco-Stato governato da Ivàn Duque,l’erede di Uribe.

Come scrive la ex senatrice Piedad Cordoba “dopo 100 anni di solitudine, a Macondo sta succedendo qualcosa”.  

Anche qui, come su tutto il pianeta, la pandemia ha messo a nudo la natura dell’ordine sociale vigente, il capitalismo, con la sua essenza inumana e il disprezzo per la vita dei poveri e, complici, un progetto di riforma tributaria e uno sulla sanità che, oltre a privatizzare ulteriormente il settore, scaricavano i costi della pandemia sulle classi più povere. Basti sapere che il governo Duque, unico al mondo ad elevare le tasse durante la più grande crisi sociale, ha destinato solo il 2,8% del PIL alla pandemia (gli USA le hanno dedicato il 24,8%) e quasi la metà di questa miserabile percentuale è rappresentata da un’assicurazione di credito alle banche private.

Quel 28 aprile si svolge il più grande sciopero di tutta la storia della Colombia. E da allora ogni settimana vede mobilitazioni, scioperi, scontri in tutto il paese, che acquisiscono maggiore importanza anche perché infrangono il regime di eccezionalità imposto con la scusa dalla pandemia e, si calcola, coinvolgono in più di 600 città e paesi e circa 5 milioni di persone.

 

Ad opporsi al popolo colombiano, polizia, esercito e Squadroni Mobili Antidisturbi (Esmad): Duque e il suo padrino Uribe, l’ex presidente, li invitano anche a fare il “massimo uso” della forza, come se affrontassero dei nemici, non dei cittadini colombiani, operai, lavoratori, studenti, comunità indigene e organizzazioni sociali.

ll 18 maggio si contavano circa 40 morti,  più 20 giovani accecati consapevolmente (come già fatto in Cile), 1.600 feriti, 500 desaparecidos e 2.113 denunce di violenze poliziesche e abusi, tra cui il suicidio di Alison Méndez, una adolescente di 17 anni violentata da 4 poliziotti.  Anche in quella data – nonostante il Congresso abbia ritirato entrambi i progetti di legge e 2 ministri si siano dimessi- si sono registrati scioperi e manifestazioni, con blocchi delle strade, a Bogotà, a Cali – diventata l’epicentro degli scontri – a Medellìn, a Popayàn, dove decine e decine di migliaia di manifestanti chiedono ora la fine della repressione poliziesca.

Ciò significa che è stata sconfitta la paura, sia della sanguinosa azione di repressione dello Stato che della pandemia, che in molti luoghi ha invece chiuso le nostre bocche.

 

Come si è arrivati a tanto? E pensare che la Colombia , che si definisce “la democrazia più antica d’America” è un paese che non è passato per le dittature nei decenni ’70 e ’80 come la maggior parte degli altri Stati latinoamericani.

Non ce n’era bisogno; negli anni ’60 l’élite dominante stava già utilizzando, con i complimenti del presidente USA John Kennedy, la Dottrina sulla Sicurezza Nazionale (sicurezza per difendere i profitti dei più ricchi, il 3% della popolazione, e giustificare la spoliazione dei beni comuni) , utilizzata ancor oggi per far sparire il “nemico interno”, l’opposizione politica, la propria popolazione.

 

Infatti, nelle varie “guerre” al narcotraffico (di cui l’élite che governa è protagonista e complice da sempre) e poi al ‘terrorismo’ (delle FARC, non certo delle organizzazioni paramilitari che, al soldo dei proprietari terrieri degli industriali, uccidono indiscriminatamente chi si oppone nelle campagne e nelle città), la Colombia ha ampiamente usato e abusato dei “falsi positivi”. Dati i bonus in denaro riconosciuti a militari e poliziotti per la cattura di ‘narcotrafficanti e terroristi’, sono stati centinaia i giovani rapiti nei quartieri poveri delle città, ammazzati e poi registrati come ‘delinquenti’ uccisi dalle forze dell’ordine. E’ il paese delle fosse comuni, che raccolgono fino a 2.000 corpi ognuna.

 

I numeri, poi, dicono molto. La Colombia, invasa dalle truppe USA per “stroncare il narcotraffico”, è il più grande produttore di cocaina al mondo, cocaina che finisce in maggior parte proprio negli USA e il cui 95% dei profitti riposa nelle banche statunitensi.

Il paese ‘vanta’ 21 milioni di poveri su 50,4 milioni di abitanti, ha un debito che oltrepassa la metà del PIL nazionale,  un buco fiscale di più di 90  bilioni (sì, BIlioni), spese militari che rappresentano il 2° capitolo del bilancio statale  e una percentuale di disoccupazione del 18% in un paese con un’altissima cifra di lavoro informale (lavoro nero): 30 anni di neoliberismo hanno cucinato questa crisi, che nasce – come in Cile – su rivendicazioni economiche ma presto assume, data anche la risposta del governo, un carattere politico che, per la prima volta in 30 anni, ha vinto, ottenendo che i due progetti di legge fossero ritirati.

 

In questo disastro sociale sono coinvolte tutte le generazioni, ma i giovani, come anche in Cile, giocano il ruolo più importante e costituiscono la prima linea del movimento reale. Giovani lavoratrici e lavoratori, disoccupati, lavoratori informali, contadini, indigeni, afrodiscendenti, sempre più consapevoli di non avere alcun futuro se non uno sfruttamento selvaggio e senza freni; un insieme che costituisce circa il 25% della popolazione colombiana tra i 14 e i 26 anni, cioè 12,7 milioni di persone. .

Anzi, se guardiamo alle cifre dei morti, sembra che in Colombia sia un delitto essere giovani: nel 2018 sono stati assassinati 545 ragazzi tra i 15 e i 17 anni e 883 minori di 10 anni tra il 2018 e il 2019.

 

Altri soggetti della lotta sono le comunità indigene, da sempre bersaglio dei paramilitari. Sono loro le protagoniste dei blocchi stradali tra dipartimento e dipartimento. Da sempre colpita dalle bande paramilitari al soldo dei proprietari terrieri e delle multinazionali che si alimentano del saccheggio delle immani risorse naturali colombiane – che fanno da più di 60 anni il “lavoro sporco” liberando ampie zone contadine dai possibili oppositori -  la popolazione indigena in questa crisi partecipa con la Guardia Indigena che, nata come risposta a queste incursioni e sulla base della propria sanguinosa esperienza, oggi prende parte anche nelle città alla difesa dei manifestanti.

 

Bande paramilitari – che operano di concerto con esercito e polizia- che il 19 maggio, penetrate illegalmente in territorio venezuelano, hanno assassinato Jesùs Santrich, comandante guerrigliero delle FARC, tagliandogli – in perfetto stile mafioso – un dito della mano sinistra (anche Ernesto Che Guevara fu ucciso a sangue freddo da un “soldadito” boliviano che fece il lavoro sporco, ma i registi dell’operazione erano altri).

Questa strategia viene da lontano e parla l’inglese di Washington. E quando si dice che “la Colombia è l’Israele dell’America Latina” non si tratta di una metafora ma della nuda verità. 

 

E qui dovremmo anche chiederci dove sono le anime belle della nostra Unione europea che si indignano se la Bolivia vuole processare i golpisti come i boliviani Leopoldo Lòpez e Janine Añez, ma tacciono fragorosamente sui massacri compiuti in Colombia.

Così come taccciono sul fatto che l’impero nord-americano ha fatto della Colombia una testa di ponte della sua penetrazione militare nel continente, insieme allo Stato di Israele; due soci che da lunghi anni dirigono la guerra controinsurrezionale, non da lontano ma sul terreno con personale proprio, vigilando e castigando dalle 7 basi militari in territorio colombiano ogni eventuale ribellione con le truppe autoctone, addestrate da consiglieri statunitensi e israeliani ad assassinare il proprio popolo. 

Ricordiamo anche che la Colombia è l’unico Stato sudamericano membro della NATO, che può quindi vigilare, oltre che sulle ricchezze del proprio territorio, su Stati come Venezuela (con cui condivide i confini sud e ovest) e Nicaragua, ostili a Washington.

 

Per riassumere in poche parole, lasciamo parlare lo scrittore e giornalista colombiano Hernando Calvo Ospina: “E per finire vi dico: la proposta di riforma tributaria è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Quei milioni di poveri, in un paese immensamente ricco, non sopportano più di dover scegliere tra il molto poco e il nulla: hanno davvero pochissimo da perdere”.

 

(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

      Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni

 

(**) pubblicato sulla rivista “nuova unità” di giugno n. 3/2021

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