Haiti, Afganistan ...

Terremoti, guerre, Stati falliti

di Daniela Trollio (*)

 

Il 14 agosto di quest’anno, 10 anni dopo il terremoto del 2010 che fece oltre 220.000 morti, Haiti ne ha subito un altro di 7,2 gradi Richter che ha mietuto 2.200 vittime, con 12 mila feriti e più di  30 mila senzatetto.

Nell’intervallo tra i due eventi c’è un’epidemia di colera con oltre 10.000 morti causata da una fuoriuscita di liquami dalla base nepalese della Minustah (le truppe ONU di stanza nell’isola), la formazione di gang che prosperano sui sequestri e sui furti degli aiuti – tanto che la Conferenza Episcopale definiva già il paese come “totalmente inabitabile” all’inizio del 2021 - e l’omicidio ancora “misterioso” del presidente Jovenel Moise nel luglio scorso. A questo aggiungiamo gli abusi su donne e bambini, lo scandalo delle OnG e delle organizzazioni come Oxfam, Save the Children e Croce Rossa implicate in orge e reti di prostituzione e la sottrazione di fondi per la ricostruzione in cui è implicata la Fondazione Clinton.

 

Sembra che per il paese più povero delle Americhe non vi sia pace ma solo caos, tanto più che l’ultimo evento sismico si è verificato quando l’attenzione mondiale è rivolta tutta all’Afganistan, dove si svolge un’altra tragedia, ma questa più che annunciata.

 

Cosa avrà mai fatto Haiti?

Un po’ di storia ce lo spiega. Nel 1791  cominciano le rivolte e i tentativi di organizzazione  contro i colonizzatori. 10 anni più tardi Haiti è il primo paese latinoamericano a liberarsi dalla schiavitù e a conquistare la propria indipendenza il 1° gennaio 1804, affibbiando un sonoro schiaffo al colonialismo, non solo a quello francese (l’esercito di Napoleone viene sconfitto) ma anche a quelli britannico e spagnolo.

E’ l’unica rivolta di schiavi vittoriosa nella storia, una rivoluzione dove i neri, le donne e gli oppressi scrissero una Costituzione che rivendicava i diritti per tutti, Natura compresa. 

 

Impaurite e  ferite nel loro ego coloniale, le grandi potenze danno l’avvio alla loro vendetta,  perché la “malattia” dell’indipendenza e la rivolta dei neri non si estendano ad altre zone; vendetta  che ancor oggi non è finita, trasformando Haiti in una nazione condannata ad essere uno stato “fallito”, soffocata dai debiti imposti dai colonialisti, piegata da 30 anni di dittatura della famiglia di Papa e Baby Doc Duvalier, dalla repressione civile e dai colpi di Stato.

Haiti era un esempio che non poteva ripetersi: così lo Stato francese pretese un’indennizzazione di 150 milioni di franchi-oro per le perdite inflitte al suo sistema schiavista: l’isola si indebitò per pagare l’indennizzo con banche francesi e statunitensi e continuò a corrispondere  gli interessi sul debito per i successivi 70 anni . 

Alcuni studi quantificano la somma che Haiti dovette pagare in 58 anni come equivalente a 21.000 milioni di dollari del 2004. E quando nel 1915 una rivolta popolare culminò con l’assassinio dell’allora presidente Guillaume Sam e mise in forse i piani di restituzione del debito e dei suoi interessi, gli Stati Uniti intervennero militarmente e occuparono il paese fino al 1934. Ecco gettate le basi del neocolonialismo. Il paese finì di pagare gli interessi su questo debito nel 1952.

 

Alcuni dati: secondo un’inchiesta della Banca Mondiale (del 2021, la più recente disponibile) 6 persone su 10 (ossia circa 6,3 milioni di persone, il 63%,  su una popolazione totale di circa 10 milioni, di cui il 90% di origine africana) sono in povertà assoluta. L’ONU fissa in meno di 2 dollari al giorno la soglia della povertà.  Il 22% dei bambini soffre di denutrizione cronica. Dei 2,1 milioni di persone danneggiate dall’uragano Mathew dell’ottobre 2016, 1 milioni ha bisogno di aiuti umanitari.

Haiti non era un paese povero, Haiti è stata impoverita.  Nel suo sottosuolo giacciono terre rare, litio e titanio. E dietro la maschera dell’economia “green”, le multinazionali da tempo si muovono per un cambiamento della Costituzione haitiana, che oggi impedisce, almeno formalmente, la compravendita delle terre coltivabili.

Un capitolo a parte meriterebbe inoltre l’opera di “cancellazione” di questa realtà, che emerge solo quando un evento è troppo traumatico per non apparire sulle prime pagine dei giornali.

 

Un altro Stato “fallito”?

Il terremoto haitiano viene cancellato da una notizia che viene da un altro Stato “fallito”, l’Afganistan. Dopo 20 anni di guerra guerreggiata e occupazione, le truppe USA se ne vanno, apparentemente con la coda tra le gambe.

 

Vi ricordate della Daisy Cut, la bomba “taglia margherite”, utilizzata prima nella guerra del Golfo r poi in Afganistan? Una bomba dagli effetti simili ad un’atomica, salvo per le radiazioni, adatta ad essere utilizzata sulle montagne afgane.

E cosa resta dopo 20 anni di guerra, 100.000 civili uccisi, feriti, mutilati, sfollati, la devastazione e la rapina del territorio come mezzi della “guerra al terrorismo”? (Tanto per ricordare, perchè abbiamo la memoria corta, gli attentatori delle Torri Gemelle erano o avevano legami con i grandi amici degli USA nel Golfo, le monarchie saudite, che piacciono molto anche a Matteo Renzi… sarà perché pagano così bene??).

Restano le lacrime di coccodrillo per i profughi, che quando ieri erano bombardati anche dalla missione militare italiana non erano altrettanto degni di pietà e  qualche foto strappalacrime con i bambini (come sempre).

E se è vero che questa è una sconfitta militare per gli USA e gli alleati della NATO (governi italiani che si sono succeduti in questo ventennio compresi), la potenza militare più forte al mondo contro un esercito di “straccioni”, è anche vero che da 20 anni le multinazionali stanno rapinando il paese delle sue ricchezza, ad un prezzo di sangue salatissimo.

L’industria militare ringrazia: la produzione di armamenti è aumentata vertiginosamente. Ora le armi che gli USA “hanno dovuto abbandonare” in Afganistan sono probabilmente ormai obsolete e ci troveremo davanti ad una nuova corsa in avanti dell’industria militare.

E’ proprio vero - finchè c’è guerra c’è speranza, diceva Alberto Sordi.  

 

E ripensiamo alle parole di Julian Assange, il creatore di Wikileaks, oggi prigioniero politico per aver svelato i crimini di guerra occidentali in vari paesi e a cui va tutta la nostra solidarietà e un appello a continuare la lotta per la sua liberazione: “L'obiettivo è utilizzare l'Afghanistan per riciclare denaro dalle basi fiscali degli Stati Uniti e dei paesi europei attraverso l'Afghanistan e riportarlo nelle mani delle élite della sicurezza transnazionale» (...) «L'obiettivo è una guerra eterna, non una guerra di successo».

 

E vogliamo ricordare alle anime belle che oggi si stracciano le vesti per il “destino” delle donne afgane, che negli anni tra il 1978 e l’89, nell’allora Repubblica Democratica dell’Afganistan (RDA),  quelle donne andavano all’università, lavoravano, portavano la minigonna. Poi arrivarono i talebani (allora chiamati “Freedon fighters”), creati, organizzati, addestrati e pagati dagli USA, e spazzarono via tutto questo , comprese le riforme del governo “filo-sovietico”: distribuzione delle terre a 20.000 contadini, abolizione della decima dovuta dai braccianti ai latifondisti, regolazione dei prezzi, servizi sociali e istruzione per tutti,  diritto di voto alle donne, proibizione dei matrimoni forzati, ecc. ecc..

 

In ultimo, anche l’Afganistan è uno tra i paesi più poveri del mondo, o almeno lo sono gli afgani. Il paese è invece un paradiso minerario, che è stato stimato in 1 trilione di dollari, e costituito da litio, terre rare, oro e uranio.

 

L’elenco degli Stati “falliti” – non per propri errori ma grazie alle politiche economiche e militari dell’imperialismo - è lungo e si estende per tutto il globo, da occidente a oriente.

E’ quello che Naomi Klein chiama “la dottrina dello shock”. Davanti a eventi catastrofici, naturali o no, inevitabili o organizzati ad hoc,  è molto più semplice stravolgere le regole precedenti e aprire non le porte, ma i portoni, al neoliberismo.

Le sorti dei popoli come quelli di Haiti e dell’Afganistan non sono una componente dell’equazione.

 

E questo dovrebbe farci riflettere su un ordine alternativo, che noi continuiamo a chiamare socialismo, prima che il disastro si abbatta anche su chi non se l’aspetta.

 

(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni

 

Anteprima dell'articolo della rivista "nuova unità" n. 5 -settembre 2021

 

 

 

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