Guerra

La mano che dondola la culla

di Jorge Elbaum (*); da: elcoheteala luna.com; 14.3.2022

 

Lunedì 7 marzo le forze militari russe hanno localizzato una rete di sei laboratori nella zona del Donbas. Le installazioni trovate, alcune parzialmente smantellate, corrispondono a laboratori di ricerca militare gestiti insieme da ricercatori statunitensi e ucraini. I documenti ritrovati nei laboratori sono collegati alla società (appaltatrice) Southern Research Institure, affiliata alla Agenzia di Riduzione delle Minacce alla Difesa (DTRA), una dépendance del Pentagono.

 

In una ricerca del 2018 sullo sviluppo dell’armamento biotecnologico, intitolata “Le armi biologiche del Pentagono” (www.naturalblaze.com/2018/01/bio-weapons-pentagon.html), vengono elencati i contratti di questa società con il Ministero della Difesa statunitense per la generazione e propagazione di bioagenti.

Un giorno dopo i ritrovamenti, la sottosegretaria di Stato Victoria Nuland (n.d.t.  che non solo ha sponsorizzato il “golpe morbido” ma che ha partecipato personalmente alle manifestazioni inscenate dall’estrema destra in piazza Maidan a Kiev alla fine di dicembre 2013) non solo ha ammesso la loro esistenza ma si è mostrata allarmata rispetto alla possibilità che tali installazioni possano essere utilizzate in futuro da Mosca.

 

Il compito congiunto sulla guerra biologica con Kiev fa parte di un programma sviluppato da Washington  per valorizzare i settori nazionalisti ucraini e incitarli ad un confronto con la Russia.

Secondo la storica statunitense Mary Elise Sarotte, autrice di “Neanche un pollice in più: USA, Russia e il ristagno del dopo Guerra Fredda”, il rifiuto nordamericano della pacificazione europea  si deve al fatto che la cooperazione sulla sicurezza in questo continente è sempre stata vista da Wall Street e dai think tanks statunitensi come una sicura possibilità di perdere la propria influenza nella regione. Una delle fonti consultate per la sua ricerca – un importante funzionario del Dipartimento di Stato – sottolineava che un’integrazione tra Russia ed Europa “ sarebbe pericolosa (…) Se gli europei uniscono le loro forze e costruiscono un sistema di sicurezza comune, noi ne rimarremmo fuori e questo non va bene. Bisogna rafforzare la NATO perché questo non succeda”.

 

Il 21 novembre 1990 si svolse a Parigi la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE). Durante l’evento venne firmata la Carta per la Sicurezza Europea, sottoscritta dagli Stati europei, dagli USA e dal Canada. Nell’allegato intitolato “Relazioni amichevoli tra Stati partecipanti”, si stabiliva: “La sicurezza è indivisibile. La sicurezza di ognuno degli Stati partecipanti è inseparabilmente legata alla sicurezza degli altri”. Si avvertiva anche che i firmatari – tra i quali si trovava la Russia,  i facenti parte dell’Unione Europea e gli USA – “non rafforzeranno la loro sicurezza a spese della sicurezza di altri Stati”.

Quello stesso anno, otto mesi prima della Carta della Sicurezza Europea, l’allora capo del Dipartimento di Stato, James Baker, garantiva a Mikail Gorbachov che la Germania riunificata sarebbe stato l’ultimo paese ad essere integrato nella NATO: “Capiamo la necessità di garanzie per i paesi dell’Est. Se siamo presenti in una Germania che fa parte della NATO, non ci sarà estensione della giurisdizione della NATO per le forze NATO, né un pollice verso l’Est”. L’allora ambasciatore USA a Mosca, Jack Matlock, tempo dopo asseriva che erano state date “garanzie categoriche” all’Unione Sovietica sul fatto che la NATO non si sarebbe espansa ad Est.

 

I documenti ufficiali declassificati nel 2017 dal governo USA che si riferivano agli accordi assunti davanti alla Russia, sono stati digitalizzati dal National Security Archive. Nel rapporto si specifica la lista dei funzionari governativi che si erano impegnati nei due decenni posteriori alla riunificazione della Germania a non espandersi militarmente verso Est. Tra le persone citate ci sono: il segretario di Stato nordamericano James Baker, il Presidente George Bush, il ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher, il cancelliere Helmuth Kohl, il direttore della CIA Robert Gates, il presidente francese François Mitterrand, la prima ministra britannica Margaret Thatcher e il suo successore John Major, il segretario agli Esteri di entrambi, Douglas Hurd, e il segretario generale della NATO, Manfred Wörner.

Un lustro più tardi dalla firma di questi impegni vennero effettuate le prime manovre militari congiunte della NATO con l’Ucraina. Mentre tali manovre avevano luogo alla frontiera con la Russia il ministro degli Esteri britannico, Malcom Rifkind, affermava che il vero obiettivo consisteva nell’impedire che la Russia si consolidasse come potenza simile a quella che era stata l’URSS mezzo secolo prima. Nel 1999 si unirono all’Organizzazione atlantica tre paesi: Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Nel 1996, quando appariva ormai evidente che Washington e i paesi europei non avrebbero rispettato gli accordi, Gorbachov  concesse un’intervista in cui segnalava: “Oggi si possono ignorare gli interessi della Russia, le sue critiche all’ampliamento [della NATO], ma la debolezza della Russia non sarà eterna. Non si rendono conto per chi lavorano con una tale politica? Se la NATO avanza in questa direzione, qui ci sarà una reazione”.

 

Avvertenze e presagi

Nel 1997 George Kennan, uno dei pensatori statunitensi più influenti della Guerra Fredda, segnalò in un’intervista al New York Times che “ampliare la NATO sarebbe l’errore più grave della politica statunitense di tutta l’era del dopo guerra fredda”. Chiarì anche che tale espansione “infiammerebbe le tendenze nazionaliste e militariste della Russia” e che questo avrebbe portato a “restaurare il clima della Guerra Fredda nelle relazioni est-ovest e spingerà la politica estera russa nella direzione opposta ai nostri interessi”.

Un anno dopo, a fronte della nuova espansione della NATO promossa da Bill Clinton nel 1998, Kennan puntualizzò che “questo è l’inizio di una nuova Guerra Fredda ….. credo che sia un tragico errore. Non c’è alcuna ragione per questo. Nessuno stava minacciando nessuno”.  Qualcosa del genere espresse Henry Kissinger in un articolo scritto per il Washington Post nel 2014: l’Ucraina “non dovrebbe essere l’avanzata di uno contro, dovrebbe funzionare come un ponte tra loro”. E raccomandò: “Gli USA hanno bisogno di evitare di trattare la Russia come un ente aberrante a cui si devono insegnare le regole di condotta stabilite da Washington”.

William Perry, il segretario alla Difesa di Bill Clinton, dichiarò cinque anni dopo che gli USA erano responsabili del deterioramento delle relazioni con la Russia. L’attuale capo della CIA di Joe Biden, William Burns, scriveva in una autobiografia due anni dopo che invitare l’Ucraina ad unirsi alla NATO viene percepito da tutti i partiti politici della Russia come “niente meno che una sfida agli interessi russi”. Ted Galen Carpenter, specialista in relazioni internazionali del conservatore Cato Institute, segnalava nel 2018 che i sostenitori dell’atlantismo guerrafondaio avevano scatenato una seconda Guerra Fredda nell’estendersi verso l’Est: “Era assolutamente pronosticabile che l’espansione della NATO avrebbe portato ad una rottura tragica, possibilmente violenta, delle relazioni con Mosca …. Gli avvertimenti sono stati ignorati. Ora stiamo pagando il prezzo per la miopia e l’arroganza della politica estera degli USA”.

Due settimane dopo, quando Vladimir Putin ha ordinato l’operazione militare in Ucraina, il colonnello Douglas McGregor, ex consigliere alla Sicurezza del governo di Donald Trump, ha asserito che la decisione di Putin non solo era prevedibile ma giustificata, data la minaccia rappresentata dalla NATO negli ultimi vent’anni.

Tutti gli analisti internazionali, e anche chi si occupava di seguire gli avvenimenti geopolitici militari, sapevano che la crescente minaccia della NATO – insieme alla persecuzione dei russofoni dell’Ucraina – garantiva un conflitto armato.

 

Una svastica nei paraggi

Nel febbraio 2014 ci fu in Ucraina un colpo di Stato, uno della lista delle rivoluzioni “colorate”, promosso da diplomatici USA, agenzie di intelligence e corporations mediatiche. La rivoluzione del Maidan ha avuto come protagonista l’attuale sottosegretaria di Stato Victoria Nuland, che nel 2014 era il capo degli Affari Europei del governo di Barak Obama. Mentre scoppiavano le rivolte a Kiev, fu filtrata una telefonata della Nuland con l’allora ambasciatore USA in Ucraina, Geoffrey Pyatt. In quel dialogo si esplicitavano i tre obiettivi centrali dell’operazione Maidan: scegliere i futuri dirigenti che avrebbero dovuto farsi carico del governo ucraino, impedire la continuità dei vincoli pacifici tra l’Unione Europea e la Russia, e incoraggiare i settori neonazisti russofobici. Lo storico tedesco  Herwig Roggemann – uno dei più importanti cronisti degli avvenimenti europei contemporanei – ritenne che “quella ‘vittoria’ occidentale a Kiev, il Maidan del 2014, fosse il più grande fallimento della storia europea dopo lo storico cambio del 1990”.

 

Grazie all’ingerenza e alla collaborazione statunitense i gruppi neonazisti che guidavano la rivolta del Maidan si trasformarono in battaglioni paramilitari. Il banchiere Igor Kolomoiski, governatore della regione di Dnipropetrovsk, fu il primo a finanziare i battaglioni territoriali (terbats) Azov, Dnipro 1, Dnipro 2, Aidar e Donbas, incaricati di  perseguitare e assassinare gli attivisti di Lugansk e Donetsk che pretendevano di continuare a parlare la loro lingua.  Il rapporto del 2016 dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OCHA) accusò il battaglione Azov di violare il diritto umanitario internazionale.

 

Nel giugno 2015 sia il Canada che gli USA annunciarono – dopo aver addestrato i gruppi paramilitari per due anni – che le loro forze non avrebbero più appoggiato il reggimento Azov date le sue tendenze neonaziste. Nel 2016 il Pentagono disattese le raccomandazioni degli organismi dei diritti umani, che monitoravano il Donbas, e tolse tale proibizione. Due anni dopo, nell’ottobre 2019, 40 membri del Congresso degli Stati Uniti, guidati dal rappresentante Max Rose, firmarono, senza esito, una lettera in cui chiedevano al Dipartimento di Stato di etichettare il reggimento Azov come “organizzazione terroristica straniera” (FTO la sigla in inglese).

Il logo del gruppo – premiato con l’incorporazione ufficiale nella Guardia Nazionale Ucraina – esibisce il Wolfsangel, uno dei simboli utilizzati dall’esercito nazista durante la 2° Guerra Mondiale. Secondo l’ufficiale in pensione della CIA Philip Giraldi, l’addestramento di questi gruppi da parte di istruttori statunitensi rafforzò i settori più russofobici e provocò la risposta di Mosca: i segni hitleriani sono quelli che i russi non possono proprio sopportare.

 

Il primo accordo di Minks, firmato il 5 settembre 2014, garantiva l’autonomia per gli abitanti dell’est ucraino. Fu approvato da rappresentanti dell’Ucraina, della Federazione Russa, della Repubblica Popolare del Donetsk (DNR) e della Repubblica Popolare di Lugansk (LNR). Tre mesi dopo, il 2 dicembre, il parlamento ucraino modificò unilateralmente la “legge sullo statuto speciale” stipulata nel protocollo. Secondo la rivista statunitense Army Times, il Comando delle Operazioni Speciali USA ha lavorato dal 2014, in forma nascosta, per sviluppare l’operatività militare congiunta con le forze armate di Kiev.

 

Il 1° settembre 2020 è stato proibito per legge l’uso - nell’amministrazione, nei servizi pubblici e nella scuola -  di qualsiasi altra lingua che non fosse l’ucraino. Nonostante che il 20% della popolazione non parla ucraino, le scuole dove si insegnava russo e ungherese sono state chiuse.

Un anno dopo, il 21 luglio 2021, l’attuale Presidente ucraino Volodymir Zelenski ha promulgato la ‘Legge sui Popoli Autoctoni, in cui si stabilisce che solo gli ucraini di origine scandinava, quelli di origini tartare e i caraiti (ucraini di origini e lingua turca) hanno “diritto a godere pienamente di tutti i Diritti Umani e di tutte le libertà fondamentali”. Alle proteste dei russofoni sul perché essi non disponevano degli stessi diritti di cittadini, il Ministro degli Esteri dell’Ucraina, Dmitri Kuleba, ha risposto che essi “hanno già uno Stato loro (la Federazione Russa), per cui non si possono considerare autoctoni”.

 

Accerchiamento e contenimento

La promulgazione della Legge sui Popoli Autoctoni è stata approvata mentre si svolgeva a Budapest il vertice della NATO, in  cui gli USA hanno proposto di aggiungere l’Ucraina. I due temi centrali di dibattito sono stati “le politiche e le azioni aggressive della Russia” e “le sfide poste dalla Repubblica Popolare della Cina” alla sicurezza dei paesi facenti parte della NATO stessa. A fine 2021 Joe Biden ha promulgato la “Legge  di Autorizzazione della Difesa Nazionale del 2022” in cui viene approfondita “la teoria dell’accerchiamento e della contenzione” di tutti i paesi che non accettano la leadership di Washington. Nel documento si esprime chiaramente che basta solo – per essere considerato aggressore o nemico – la volontà di un paese di difendere le proprie frontiere, la propria identità, la sua sicurezza territoriale e/o la sua sovranità .

 

I quattro obiettivi attuali degli USA in Eurasia sono:

-          demonizzare Russia e Cina per evitare la loro ascesa come potenze;

-          generare malessere interno in tali paesi per impedire il loro consolidamento come potenze;

-          separare la Russia dall’Unione Europea sia in termini commerciali che energetici e sostituire Mosca come fornitori di gas liquido;

-          dal vita ad una nuova corsa alle armi orientata a rivitalizzare l’economia atlantista.

Attualmente la Russia è il secondo produttore di idrocarburi del pianeta. Il 40% del gas che l’Europa consuma arriva tramite gasdotti gestiti da Gazprom. Il gas liquido – che Washington vuole esportare per sostituire le esportazioni russe – costava 8 dollari il milione di BTU l’anno scorso, e oggi è quotato 55 dollari.

L’Europa si è unita all’offensiva di Washington e si prepara a un futuro duro inverno dopo aver congelato il progetto del gasdotto North Stream II.

Washington si sente parzialmente vittoriosa perché è riuscita a trascinare l’Unione Europea verso la russofobia. Ora ha bisogno che la Russia perda la guerra e venga sminuita e screditata. Mentre si incitano gli ucraini a resistere contro uno degli eserciti più potenti del pianeta, gli USA pianificano la vendita di armi e la futura ricostruzione dell’Ucraina. Per Washington una piena vittoria russa comporterebbe il pericolo di un nuovo ordine mondiale con un asse Mosca-Pechino.

Dopo aver fabbricato le condizioni per la guerra, il Dipartimento di Stato si concentra sulla necessità di imporre una narrativa demonizzatrice di Putin, capace di giustificare il dispiegamento della NATO e il genocidio del Donbas.

La sua credibilità, però, è stata messa in discussione lo scorso 5 marzo quando funzionari di Biden sono stati a Caracas per negoziare l’acquisto di petrolio con chi NON  riconoscono come Presidente  (n.d.t. del Venezuela), Nicolàs Maduro.

Come diceva il marxista tendenza Groucho: “Questi sono i miei principi e se non vi piacciono ne ho altri”.

 

(*) Sociologo e giornalista argentino, analista del Centro Latinoamericano di Analisi strategica (CLAE).

 

(traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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