Cuba non è sola

Scioperi della fame, dissidenti e speranze perdute

Da pochi mesi, cogliendo la ghiotta occasione della morte di Orlando Zapata, detenuto comune che si è lasciato morire di fame e dello sciopero della fame – a casa sua e non in carcere, come lasciano intendere i mezzi d’informazione - di Guillermo Farinas, si è scatenata una enorme campagna mediatica contro la Rivoluzione Cubana, guidata dal quotidiano madrileno El Paìs, appartenente al Gruppo Prisa, che fece le sue fortune (oggi ha giornali, riviste, radio e canali televisivi in tutto il mondo) fornendo alle scuole della Spagna franchista testi scolastici (Ediciones Santillana) adeguati all’ideologia del nuovo regime, cosa che il gruppo avrebbe poi continuato a fare con le dittature del Cono Sur.

Eppure, se ciò che cercano i giornalisti sono “prigionieri politici” e “scioperi della fame”, non era necessario aspettare la morte di Zapata.
In Spagna, ad esempio, nel mese di febbraio 6 lavoratori disoccupati si sono chiusi nel convento di Santo Domingo di Cadice ed hanno iniziato lo sciopero della fame per protestare perché non riescono più a dar da mangiare alle loro famiglie. Ma forse questi lavoratori non sono “prigionieri politici”.
Nessuno può invece negare che siano “prigionieri politici” i 7.000 (si, 7.000) palestinesi incarcerati dallo stato israeliano che il 7 aprile scorso hanno cominciato uno sciopero della fame per protestare contro le loro miserabili condizioni di detenzione, per chiede che il governo “smetta di umiliare” le loro famiglie all’entrata del carcere e perché venga permesso a centinaia di altre famiglie della Cisgiordania e di Gerusalemme Est di visitare i loro parenti in prigione, cosa che il governo israeliano non permette per “ragioni di sicurezza”.
Nelle prigioni del Marocco ci sono da mesi 36 prigionieri politici saharaui in sciopero della fame, per i quali il coordinatore del Fronte Polisario ha chiesto in aprile un intervento della comunità internazionale.
Ne avete mai sentito parlare? Eppure queste notizie vengono date da agenzie informative a livello mondiale ma non fanno … notizia, non interessano a nessuno e nessuno le riprende per sbattercele in faccia ogni sera. Così come i giornali si guardano bene dal dirci che i suicidi, nelle carceri della nostra democratica Italia, dall’inizio dell’anno a fine aprile sono ben 32: altra notizia non notizia. I prigionieri politici esistono anche in Italia e sono circa un centinaio e nel nostro paese si può morire come Federico Aldrovandi o Stefano Cucchi.
E tutti gli autonominatisi “difensori dei diritti umani” non ci dicono che nel democratico Honduras continuano ad ammazzare giornalisti e membri del Fronte della Resistenza (che neanche riescono ad arrivarci, in carcere), tanto che il governo spagnolo ha fatto sapere che non riceverà il nuovo presidente Porfirio Lobo. Anzi, l’Honduras è sparito dalla faccia del mondo dell’informazione, così come è sparita la martoriata Haitì e l’enorme e continuo lavoro che hanno fatto – prima e durante il terremoto - e continuano a fare i medici e i tecnici sanitari cubani, anche ora che gli haitiani non fanno più notizia.

Qualche altro piccolo particolare su cui la stampa occidentale da mesi si sofferma.
I dissidenti cubani. E’ ormai provato, da anni e oltre ogni ragionevole dubbio, che sono pagati dagli Stati Uniti: non lo dice Cuba, ma lo stesso governo USA nei capitoli dei suoi bilanci annuali (140 milioni di dollari nel 2008, 55 milioni nel 2009, nel primo bilancio firmato Barak Obama, nonostante la crisi economica). In molti paesi, USA compresi, chi riceve denaro da una potenza straniera per progetti di sovvertimento del proprio governo rischia non solo decenni di galera ma la pena di morte.
Le Damas de blanco. A Cuba le chiamano “Damas de verde” (dal colore dei dollari statunitensi) e sono, come riconosce persino El Paìs, una dozzina. Il terrorista cubano Santiago Alvarez, collaboratore confesso della CIA, pochi mesi fa durante un processo in Florida che lo vedeva imputato per aver trasportato armi ed esplosivi, ha ammesso di sovvenzionarle e che, nel caso di una sua condanna, si era già accordato con l’ex responsabile dell’Ufficio di Interessi degli Stati Uniti all’Avana – Michael Parmly – perché le Damas continuassero a ricevere i sussidi.
La cyberdissidente Yoani Sànchez. Tutti i giorni informa il mondo di quanto sia repressivo il governo cubano dal suo blog “Generacion Y”, appoggiato su un server tedesco con un’ampiezza di banda di 60 volte più grande rispetto a qualsiasi altra utilizzata a Cuba (governo compreso) e tradotto simultaneamente in 18 lingue, alcune non presenti neanche nei siti dell’ONU, del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale! Seguendo il suo blog è chiaro che la Sànchez non lavora e viene spontaneo chiedersi da dove vengano i soldi per mantenere, oltre a lei e alla sua famiglia, tutto questo. Quanto poi allo spessore della Sànchez, che ha ricevuto – tra gli altri – il Premio Cervantes, chi legge lo spagnolo può cercare in rete la recentissima intervista fattale dal professor Salim Lamrani e rendersi direttamente conto dell’inconsistenza politica (e letteraria) della cyberdissidente.

C’è una spiegazione a questo accanimento contro la Rivoluzione cubana, oltre al peccato storico che essa deve scontare: l’aver vinto, l’ostinarsi a cercare di costruire una società senza sfruttati e senza sfruttatori, il rappresentare un esempio e una speranza per i popoli sfruttati ed oppressi, pur con contraddizioni e difficoltà che i rivoluzionari cubani sono i primi ad ammettere, ad analizzare e a cercare di risolvere. Onestà etica e politica che – tra le altre cose – spiega forse perché, nonostante l’abbiano data per morta decine di volte, la Rivoluzione cubana sia ancora lì e goda del sostegno del suo popolo, come testimonia il milione di persone che anche quest’anno ha sfilato all’Avana per il 1° maggio (la cifra non è del Granma, ma di El Paìs).
Nel nostro paese, in genere, i critici più feroci della Rivoluzione cubana sono gli esponenti di una certa “sinistra” rappresentati da L’Unità, La Repubblica, Liberazione, il Manifesto: fatto curioso ma spiegabile. Chi ritiene legittimo e insostituibile il profitto, chi si è venduto, armi e bagagli, al “Mercato” quale panacea per il pianeta, chi pensava che il problema non stia nel capitalismo e nella sua forma più alta (o bassa….) - l’imperialismo – e che la globalizzazione, nome più accettabile del neoliberismo, fosse la soluzione, ora che la realtà della crisi dimostra l’inconsistenza della sua analisi e il suo schieramento di classe non può far altro che arroccarsi e difendere con le unghie e con i denti la propria posizione.

La crisi cosiddetta “finanziaria” (che finanziaria non è) scoppiata a metà del 2008 ha strappato al capitalismo ogni velo di progresso e di “modernità”. E’ rimasto nudo il volto della rapacità cieca del capitale, che sta portando alla distruzione anche il pianeta (ultimo disastro ambientale, in ordine di tempo, la marea nera di petrolio che si sta dirigendo verso le coste degli USA), non più solo la gran parte dei suoi abitanti. La situazione in cui si trova la Grecia dimostra che questa rapacità non si ferma neppure davanti alla prospettiva di mandare in bancarotta uno stato (borghese).

L’Impero è in decadenza, impantanato in Iraq e in Afganistan nonostante le enormi cifre che ormai raggiunge il suo bilancio militare; la Cina – oltre a possedere la maggior parte del debito USA - si incammina a diventare la prima potenza economica. L’America Latina dimostra ogni giorno di più – nonostante l’opzione militare scelta dal governo USA con la moltiplicazione delle basi militari, la riattivazione della 4° Flotta e il sostegno aperto al golpe di stato in Honduras – che non ha nessuna intenzione di tornare ad essere il cortile di casa yankee né di arrendersi al “dio mercato”. E’ proprio in America Latina che sta avanzando, con l’ALBA e con decine di altre iniziative a livello economico, politico, sociale, monetario il tentativo di integrazione di alcuni paesi, un germoglio della Patria Grande di Bolìvar, che può trascinare anche altri.

Hugo Chavez in Venezuela ha riportato nel dibattito politico mondiale la parola “Socialismo”. Evo Morales ha aperto la Conferenza Mondiale dei Popoli sul Cambio Climatico e i Diritti della Terra (19/23 aprile, Cochabamba), a cui hanno partecipato 30.000 persone provenienti da 129 paesi, con queste testuali parole: “O muore il capitalismo o muore il pianeta”.
I governi – e i popoli con il proletariato all’avanguardia, mai dimenticarlo, perché questi governi esistono grazie a una profonda e continua lotta di classe – di Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, lo stesso Honduras dove la Resistenza prosegue la lotta e, in misura diversa e fra molte contraddizioni, anche dell’Argentina e Brasile stanno recuperando (nazionalizzando) ad un ritmo sempre più veloce - le loro risorse più importanti (acqua, petrolio, gas, industria pesante, banche, telecomunicazioni, ecc.) perché a goderne i frutti siano gli strati più bassi e storicamente sfruttai ed emarginati della popolazione e non più le multinazionali a cui questi settori erano stati svenduti negli anni delle dittature e del neoliberismo più feroce, che proprio in questi territori divenne politica reale – poi applicata in tutto il pianeta, dopo essere nata dalle teste d’uovo dei Chicago Boys.

E Cuba e la sua Rivoluzione sono sempre lì, a dimostrare che si può lottare e si può vincere e il suo esempio non è più solo un esempio ma un fatto concreto e condiviso per milioni di persone. Questo spiega l’odio, la menzogna, le sempre frustrate speranze che questo esempio sprofondi nel Mar dei Caraibi: Cuba non è più sola.


Daniela Trollio