Scene di lotta di classe in Bolivia e Colombia

Ora questa massa anonima, questa America di colore, scura, taciturna, che canta in tutto il continente con la stessa tristezza e disinganno, ora questa massa è quella che comincia a entrare definitivamente nella sua storia, comincia a scriverla col suo sangue, comincia a soffrirla e a morire; perché ora per le campagne e per i monti d’America, per le balze delle sue sierre, per le sue pianure e le sue selve, nella solitudine o nel traffico delle sue città, lungo le coste dei grandi oceani e dei fiumi, comincia a scuotersi questo mondo ricco di cuori ardenti con mani brucianti del desiderio di morire “per ciò che è loro”, di conquistare i loro diritti irrisi da quasi cinquecento anni dagli uni e dagli altri. Ora sì che la storia dovrà fare i conti coi poveri d’America, con gli sfruttati, coi vilipesi che hanno deciso di cominciare a scrivere essi stessi – per sempre – la loro storia. Già li si vede, un giorno dopo l’altro, per le strade, a piedi, in marce senza fine di centinaia di chilometri, per giungere agli “olimpi” dei governanti e riconquistare i loro diritti. Già li si vede - armati di pietre, bastoni, machetes - ovunque, ogni giorno, occupare le terre, immergere le mani nella terra che gli appartiene e difenderla con la loro vita; si vedono con i loro cartelli, le loro bandiere, le loro parole d’ordine fatte correre al vento per le montagne e le pianure. E quest’onda di commosso rancore, di giustizia reclamata, di diritti calpestati che comincia a levarsi fra le terre dell’America Latina, quest’onda non si fermerà. Andrà crescendo col passare dei giorni. Perché quest’onda è formata dai più, da coloro che sono maggioranza in tutti i sensi, da coloro che accumulano col loro lavoro le ricchezze, creano i valori, fanno andare le ruote della storia e che ora si svegliano dal lungo sonno di abbrutimento al quale li hanno sottomessi.
Perché questa grande umanità ha detto basta e si è messa in marcia.

 

Ernesto Che Guevara – 12 dicembre 1964, discorso all’ONU

 

Le parole del Che, pronunciate più di 40 anni fa, sono e restano la chiave fondamentale per capire cosa sta succedendo in Bolivia, in Colombia ….. nel cuore del continente sud-americano.
Uno degli elemento da ricordare è che, come diceva Mariàtegui, “il problema dell’indio è il problema della terra”. L’altro è che la classe operaia, i minatori in primo luogo per quel che riguarda la Bolivia, è strettamente legata alle comunità contadine, dove gli operai tornano il fine settimana per aiutare a coltivare la terra. In terzo luogo le popolazioni indigene possiedono una millenaria storia di lotte e di organizzazione, oltre ad una visione comunitaria nei riguardi dello sfruttamento delle risorse naturali, del rapporto con la Pacha Mama, la “madre terra” generosa che sfama i suoi figli, non una merce a depredare.

 

La Bolivia degli sfruttati vuole decidere il suo destino

 

Da anni uno scontro di classe durissimo scuote la Bolivia, a partire dagli anni ’90 con la Marcia per il Territorio e la Dignità, passando per la guerra dell’acqua del 2000 culminata con la rivolta di El Alto nel 2003 e l’elezione di Evo Morales. I fatti degli ultimi mesi sono ben conosciuti. Apparentemente questo scontro si gioca sul referendum per l’approvazione della nuova costituzione, che avverrà a gennaio 2009.
In gioco sono non solo la questione della terra e la gestione delle risorse, ma il controllo dei benefici dello sfruttamento di queste risorse. L’oligarchia della “Media Luna” (regione che comprende i distretti di Santa Cruz, Tarija, Beni e Pando, in cui si produce il 44% del prodotto interno lorod della Bolivia) non può accettare di perdere questo controllo e i benefici che le vengono da parte delle multinazionali (come Enron-Shell, Repsol e Amoco, che finora pagavano le imposte più basse del mondo), così come non può accettare un cambiamento nella struttura della proprietà della terra, cambio che significherebbe anche riconfigurare la struttura del potere politico e permettere ai popoli indigeni di diventare soggetti sociali e politici in grado di decidere non solo delle loro vite ma anche del futuro del loro paese .
Il problema della terra vede in Bolivia, specie nei dipartimenti di Beni e Santa Cruz - le ricche terre basse contrapposte all’altipiano - enormi aziende con 40, 50 e anche 100.000 ettari di proprietà di poche famiglie di latifondisti (una di queste è quella del prefetto Leopoldo Fernandez, oggi detenuto e imputato per il massacro di Pando). Il nuovo progetto costituzionale prevede di ridurle ad un massimo di 10.000 ettari.

Con le violenze dei mesi scorsi (30 contadini massacrati in El Porvenir, Pando, sabotaggio degli oleodotti, distruzione di edifici governativi, l’umiliazione nelle pubbliche piazze di Sucre e di Santa Cruz degli indigeni per mano delle bande naziste della Juventud Crucenista) l’oligarchia boliviana inoltre ha dimostrato qual’è il suo concetto di democrazia. La democrazia rappresentativa ha come fondamento, formalmente, il voto della maggioranza. Quando questo è funzionale per gli interessi della minoranza al potere va tutto bene. Quando succede il contrario, cade la maschera e viene alla luce il contenuto di classe. L’oligarchia sa bene che le richieste del popolo boliviano mirano a mettere in discussione il suo potere e i suoi privilegi.

Gli “autonomisti” sono stati infine battuti dalla forza del popolo organizzato, dato che il governo aveva deciso di non far intervenire l’esercito.
Organizzazioni contadine e operaie hanno bloccato le strade intorno a Santa Cruz, Cochabamba e Trinidad. In Santa Cruz un intero, enorme, quartiere popolato da 200.000 persone ha resistito alle violenze e contrattaccato; le donne hanno messo in fuga le bande fasciste. Sucre è stata accerchiata da membri della Federazione Unica dei Lavoratori e dei Popoli Originari. A Tarija sempre le donne del mercato contadino, dopo ore di scontri, hanno scacciato a bastonate gruppi di studenti della Juventud Crucenista. La Centrale Operaia Boliviana (COB) ha convocato una manifestazione nazionale e annunciato di essere disposta ad accerchiare la città di Santa Cruz; la Federazione Sindacale dei Lavoratori Minatori di Bolivia ha dichiarato lo stato di emergenza e mobilitazione.

Gli “autonomisti” hanno – per il momento – perso la battaglia, così come l’hanno persa gli Stati Uniti, rappresentati dall’espulso ambasciatore Philip Goldberg, già consigliere nei Balcani, che speravano di ripetere il “modello Kossovo” ed hanno attivamente sostenuto, con armi e consigli, i prefetti della Media Luna.
A gennaio ci sarà il referendum sulla nuova Costituzione ed è probabile che la lotta riprenderà. Ma il popolo boliviano ha dimostrato di avere sufficiente esperienza e organizzazione per sapere cosa vuole e come rispondere, anche con la violenza, alla violenza degli sfruttatori. Un manifesto dell’assemblea del Gran Popolo Chiquitano (zona di Oriente) dice ”riaffermiamo la nostra ferma volontà di lotta per difendere i risultati del processo costituente, che ha raccolto le nostre istanze storiche … perché mai più torneremo ad essere schiavi, né servi dei gruppi oligarchi e dei possidenti terrieri di Santa Cruz”.
Il popolo boliviano non è solo: Hugo Chavez dal Venezuela ha dichiarato: “Se toccano Evo non rimarremo a braccia conserte. Abbiamo imparato la lezione di Allende”.

 

Colombia in marcia

 

Il 15 settembre entrano in sciopero 12.000 tagliatori di canna da zucchero, occupando 8 stabilimenti nella Valle del Cauca. I tagliatori, quasi tutti afrocolombiani, lavorano dalle 6 della mattina alle 5 di sera, tornano alle loro case alle 20 dopo aver dato più di 5.000 colpi di machete ed aver respirato tutto il giorno il fumo dei falò della canna e il glifosato (pesticida pericolosissimo per gli esseri umani, commercializzato dalla Monsanto con il nome di Roundup) usato nella coltivazione. Guadagnano circa 10 dollari al giorno ma devono pagare di tasca loro i contributi di sicurezza sociale, i vestiti e gli strumenti di lavoro, il trasporto ai luoghi di lavoro.
Le loro richieste sono elementari: avere contratti di lavoro, il pagamento delle giornate di lavoro perse quando i padroni fermano la produzione, il pagamento delle giornate di malattia – sono circa 200 all’anno i tagliatori che rimangono inabili per incidenti sul lavoro – e la sostituzione delle bilance mobili irregolari che favoriscono i padroni degli stabilimenti.
Lo sciopero, sostenuto da buona parte della popolazione del Cauca, ha preso di sorpresa sia il governo che l’associazione padronale: per 54 giorni la produzione è stata bloccata, si è dovuto importare zucchero dall’Ecuador e dalla Bolivia, si è paralizzata la produzione di etanolo e, quindi, il prezzo della benzina è salito. Lo sciopero non è riuscito ad eliminare le CTA (Cooperative di Lavoro Associato, le false cooperative attraverso cui sono impiegati i tagliatori), ma ha imposto un aumento del 12% del salario, il controllo delle bilance, la fornitura degli strumenti di lavoro, contributi dei padroni per gli incidenti e le malattie, la limitazione dell’orario di lavoro alle 16.

 

Il 12 ottobre è iniziata la Minga (lavoro collettivo) per la Vita dei Popoli Indigeni. Le loro richieste: rifiuto del trattato TLC con gli Stati Uniti definito “patto tra padroni e contro i popoli”; deroga alle riforme costituzionali del governo Uribe “che sottomettono i popoli all’esclusione ed alla morte”; rifiuto del Plan Colombia “che infesta i nostri territori e li dissemina di morte e di sfollati”; compimento, da parte dello stato, degli accordi che, dopo il massacro nel 1991 in cui furono assassinate 20 persone di etnia nasas (la più organizzata tra il centinaio di altre etnie colombiane), prevedevano la concessione di migliaia di ettari di terre alle comunità contadine come risarcimento, accordi mai attuati.
La Minga è iniziata con il blocco attuato da circa 10.000 indigeni della strategica Carretera Panamericana. I manifestanti sono stati brutalmente attaccati dall’esercito, con due morti e 90 feriti. Le comunità contadine si sono ritirate e hanno ripreso a bloccare altri tratti di vie di comunicazione. Quando il governo ha rifiutato di ricevere i loro rappresentanti, hanno iniziato una marcia verso Cali, a cui si sono aggiunti i tagliatori di canna in sciopero da due mesi e lavoratori di altri settori sindacali.
Per circa un mese più di 50.000 contadini e lavoratori hanno attraversato a piedi tutta la Colombia, portando la loro denuncia in migliaia di paesi e comunità, ricevendone sostegno e assistenza, ingrossando le proprie fila e, soprattutto, prendendo coscienza della propria forza.
La Minga ha costretto per ben due volte Uribe ad incontrare una delegazione dei manifestanti, a Cali – dove lo aspettavano 200.000 contadini - e a La Maria Piendamò: anche se i colloqui si sono risolti in un nulla di fatto, in decine di assemblee gli indigeni hanno deciso di proseguire la marcia fino al cuore della Colombia ricca, bianca e razzista, fino a Bogotà.

Anche le classi medie, impoverite grazie agli enormi stanziamenti fatti dal governo in questi anni per “combattere la guerriglia”, si stanno risvegliando.
I funzionari giudiziari hanno fatto uno sciopero prolungato chiedendo miglioramenti salariali e maggiori investimenti per l’autonomia del potere giudiziario: il governo ha risposto decretando lo stato di “conmociòn interior” (una specie di stato di eccezione, con sospensione di alcuni diritti costituzionali); poco dopo li hanno seguiti gli impiegati del sistema elettorale, poi i maestri e i camionisti.
Il governo Uribe è sempre più in difficoltà: dopo lo scandalo della parapolitica - che ha lasciato grandi vuoti nel Parlamento tra arresti e dimissioni di deputati legati ai narcotrafficanti ed alle bande paramilitari - alla fine di settembre scoppia lo scandalo dei “falsi positivi”. 27 militari, tra cui 3 generali e il comandante dell’esercito, vengono radiati: sono accusati di aver sequestrato 11 giovani di Bogotà e Soacha - reclutati nei quartieri poveri con promesse di lavoro - per farli poi riapparire, dopo 2 giorni, in altre parti del paese come guerriglieri delle FARC uccisi, per guadagnare i premi e i congedi supplementari istituiti dal governo. Questo è un fatto ben noto in Colombia, ma è la prima volta che viene riconosciuto ufficialmente e, probabilmente, si tratta solo della punta di un iceberg: un rapporto del 2007 della Missione internazionale di osservazione sulle esecuzioni extragiudiziali parlava di ben 955 casi di sparizioni (e dovremmo sempre tenerlo presente di fronte ai roboanti annunci ufficiali di sconfitta della guerriglia).

Persino l’alleato storico di Uribe – gli USA, per bocca di Barak Obama – fa sapere che il Trattato di Libero Commercio non sarà firmato se non cessano gli assassinii dei sindacalisti, che nei 6 anni di governo Uribe sono arrivati a 1.240 (i contadini espulsi dalle loro terre dall’esercito e dalle bande paramilitari sono più di 54.000).

 

Tornerò e sarò milioni” aveva promesso nel 1781 - prima di essere torturato e squartato vivo dai colonizzatori spagnoli - il capo ribelle aymara Tùpac Katari: i milioni di sfruttati, oppressi e umiliati che, in tutto il continente – con le più diverse forme, dalla resistenza ai latifondisti del popolo Mapuche all’Ecuador di Rafael Correa che afferma che “i debiti si pagano ma le truffe no” - stanno riprendendo in mano il loro destino.

 

Pubblicato su Nuova Unità n. 8 – dicembre 2008


Daniela Trollio
Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”